Quel principio di notte del 22 agosto sembrava pieno inverno. Il temporale illuminava Villa dei Cipressi. Le tapparelle serrate. La signora Silvana aveva paura. Il telefono prese a squillare all'improvviso facendola sobbalzare. Si alzò e andò a rispondere.

«Pronto, pronto.»

Una voce. «Signora Silvana, sono Luciano, il figlio del notaio Silvestrini, si ricorda di me?»

Attimo di silenzio. Silvana non riusciva a realizzare. Finalmente si decise a rispondere. Un lampo illuminò la stanza, la voce si fece decisa, forse più per la paura che per la curiosità.

«Pronto? scusami. Come mai ti fai vivo dopo tutto questo tempo? Fammi pensare, quant'è passato? Cos'è successo per telefonare a quest'ora?»

Luciano riprese. «Infatti mi deve davvero scusare se la disturbo a quest'ora improbabile. Ci ho pensato e ripensato, poi ho deciso di farlo. Per dirle di sua figlia.»

Silvana sentendo pronunciare la parola figlia si sentì sprofondare nella poltrona, quel ricevitore d'improvviso fu un macigno, il cuore le batteva così forte da farla star male.

«Signora, risponda la prego.»

Lei rimase in un silenzio impietrito.

«Dunque sua figlia Paola è ricoverata alla Casa di Cura Villa Celeste di Sestri Levante. Lei è al corrente che Paola ora è madre Elisabetta ed è badessa nel convento di Genova? Io non so come dirglielo, mi rendo conto che posso sembrarle perfino brutale, ma Paola ha un cancro all'utero. Domattina verrà operata, i chirurghi non sono ottimisti perché purtroppo il male è stato diagnosticato tardivamente» disse Luciano senza nemmeno prendere fiato. Dopo una breve pausa, cercando di immaginare la reazione di Silvana che rimaneva nel suo silenzio, continuò con tono deciso. «Io domani cercherò di essere lì. Ripeto che l'ho fatto solo per sua figlia. Comunque, se vuole segnarselo le ripeto l'indirizzo».

Silvana finalmente aprì bocca. «Dimmi.»

«Casa di Cura Villa Celeste, Via degli Aceri 64 a Sestri Levante. L'équipe dovrebbe essere quella del professor Albertini.»

«Grazie.»

«E mi scusi di nuovo se l'ho disturbata.»

La conversazione si chiuse così. Silvana non aveva avuto nemmeno il tempo di mettere pienamente a fuoco ciò che stava succedendo.

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Era la mattina del 2 agosto 1992, Enrica stava salendo le scale del palazzetto della famiglia Fatini in Via del Coro al n°25 dove abitava da quasi dieci anni come governante della signora Lucia. Adesso quei gradini ripidi li faceva allegramente e in buona compagnia; insieme a lei c'era infatti la sua amica istriana Martina, da due anni in Italia, iscritta alla Facoltà di Lettere dell'Università di Siena, più piccola di Enrica quasi di dieci anni: per mantenersi, fino a quel momento aveva fatto alcuni lavori temporanei, insufficienti per vivere con una certa dignità, così si era rivolta proprio all'amica conterranea nella speranza che potesse aiutarla a trovare un impiego sicuro. Nel momento in cui Martina le si era rivolta per quel motivo, Enrica aveva ringraziato il cielo – difatti era in procinto di lasciare il servizio per tornare al suo paese, in Istria, e sposarsi – l'avrebbe fatto non appena avesse trovata la sostituta.

La felicità si leggeva nei loro occhi: Enrica aveva trovato finalmente una persona fidata per la signora Lucia, Martina un posto sicuro che oltretutto le avrebbe permesso di finire gli studi.

Arrivate al 2° piano, Enrica aveva il fiatone, e pensare che quando aveva preso servizio in quella casa le scale le faceva a due a due, allora era così magra che la chiamavano l'acciuga, purtroppo negli ultimi anni si era appesantita e quelle rampe si erano fatte pesanti per lei.

Si fermarono davanti ad un portone imponente, Enrica cominciò a tirare fuori dalla sua borsa tutto quello che aveva dentro e si accorse che le mancavano le chiavi, si ricordò di averle lasciate sulla consolle dell'ingresso, sbuffò, suonò il campanello più di una volta per essere sicura che la signora sentisse, finalmente una voce stanca domandò chi fosse.

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Quella mattina me ne stavo seduta nel giardino sotto l'ombra del salice aspettando la telefonata di mio marito Antonio.

I miei occhi si posavano su tutto quel che avevo intorno, cercavo di mettere in ordine i pensieri elencando quello che avevo fatto e ciò che rimaneva da fare prima di chiudere la porta e partire per le vacanze.

Una mosca fastidiosa s'impegnava a distrarmi, ero intenzionata a scacciarla senza muovermi da quella posizione oziosa.

Guardavo ogni tanto l'orologio che portavo al polso sinistro, regalatomi dieci anni prima dai miei due figli, Silvia e Francesco, per il mio compleanno.

L'aria calda senza un alito di vento ristagnava anche sotto l'albero fronduto, nessun refrigerio, avrei voluto alzarmi per prendere un bicchiere d'acqua fresca, ma quel dolce far niente mi appagava: meritato riposo dopo una mattinata di fatica per preparare le valigie e sistemare la casa.

Ogni anno, dal giorno del mio matrimonio, si ripetevano le stesse cose e gli stessi itinerari. La nostra meta era Viareggio, avendo lì una casa ereditata dai miei suoceri, una palazzina vicino al mare, molto comoda soprattutto quando i figli erano piccoli.

Dopo aver oziato, mi alzai per telefonare ad Antonio e ricordargli che era tempo di partire. Sapevo che si trovava in cantiere per dare le ultime istruzioni al suo collega Carlo, rientrato da poco dalle ferie.

Antonio ama molto la sua professione di ingegnere, al punto di metterla davanti a qualsiasi cosa, a volte anche alla famiglia, sapendo che purtroppo può contare su di me.

Nel mondo del lavoro è molto apprezzato e stimato, soprattutto qui a Montepulciano – il paese dove viviamo.

Ha idee spesso geniali, talora avanti con i tempi. Un aspetto curato e impeccabile, i quasi sessant'anni portati meravigliosamente: alto, occhi neri come carboni, capelli lisci biondi con tocchi di grigio... sembra ben più giovane della sua età. Silvia lo adora, tant'è vero che voleva pure lei diventare ingegnere, ma all'età di 23 anni si è dovuta sposare perché incinta di Marco, ora suo marito: dal loro amore è nata la nostra stupenda Valentina.

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Le mani di Isabella tremavano. Ed ora cosa gli dico... come mi spiego? Fece un respiro profondo e iniziò a comporre il numero. Due squilli. «Parlo con l'avvocato Piergiorgio Borrelli?»

«Sì, sono io.» La voce profonda, inconfondibile di colui che ella aveva amato. L'avvocato pure aveva riconosciuta quella, debole, dall'altro capo. «Isabella...? è successo qualcosa?»

La giovane donna, cercando di trattenere l'emozione e il dolore che aveva dentro, riuscì a spiegargli in quale situazione si trovasse.

La stanza n° 12 del reparto Traumatologia era ben illuminata, imbiancata di recente: profumo di pulito, senza sentore di disinfettante. Una cameretta a letto singolo, con bagno riservato. Isa, nonostante la terapia in atto, sentiva ancora dolore all'occipite, dove aveva una ferita lacero-contusa – che le era stata suturata all'arrivo in Pronto Soccorso – e dove si era formato un discreto ematoma. Soprattutto, però, le metteva angoscia il fatto di avere un bel buco nella memoria.

Fuori dalla porta montava la guardia un carabiniere.

Isabella: una donna giovane, bella e affascinante; occhi acqua di mare; i capelli neri tagliati alla maschietta; carattere dolce eppure deciso. La mamma, Emma Traverso, l'aveva tirata su a studio e amore per la vita. Quando erano rientrate in Italia, Isa aveva diciannove anni: per lei era stato duro lasciare tutto: scuola, amici, abitudini. Emma aveva cercato di starle vicina il più possibile, pur essendo presa per buona parte del giorno, e non di rado anche la notte, dalla sua professione di chirurgo vascolare.

Isa, il babbo quasi non se lo ricordava: questi infatti se n'era andato di casa quando lei aveva sette anni – naturale che quell'affetto fondamentale le fosse mancato. Adesso, Isabella era una giovane venticinquenne laureata all'Accademia delle Belle Arti di Milano. Una donna che si trovava ad affrontare l'accusa di matricidio.

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In Via del Coro, al numero 22, nel mese di marzo del 1951 venne al mondo Maria Pia. Mamma Gisella aveva partorito precedentemente due maschi: Roberto, che ora aveva cinque anni, ed Anselmo di tre. Le due nonne, materna e paterna, quando nacque la femminuccia vollero entrambe che le fosse messo il loro nome.

Maria, mamma di Gisella, vedova da tanti anni, di origini contadine, vissuta in campagna senza mai risparmiarsi nel lavoro, con grande dolore dopo la morte del marito Virgilio Scalabrelli aveva dovuto lasciare tutto per venire ad abitare a Piancastagnaio, appunto in Via del Coro al n° 22, nella casa della sua unica figlia e del genero Giacomo Venturini, lavoratore indefesso, onesto e generoso.

Pia, madre di Giacomo, minuta donna scaltra ed intelligente, era invece rimasta vedova da poco. Suo marito, Franco Venturini, aveva insegnato per tanti anni alle Scuole Elementari di Piancastagnaio, ed era stato amato da tutti gli alunni che avevano segnato quei vecchi banchi. La sua morte aveva lasciato un vuoto incolmabile nella scuola. Un cancro se l'era portato via in pochi mesi.

Quando nacque Maria Pia, fuori c'era una tormenta di neve. Giacomo aveva preparato per tempo fascine di legna per accendere il fuoco giorno e notte affinché Gisella non patisse il freddo al momento del parto.

La levatrice del paese, ben esperta nella sua professione, tirò fuori la piccola perfino con facilità. Ci fu letteralmente un urlo di gioia da parte di Giacomo che desiderava tanto una femmina.

La piccola cresceva coccolata da tutti, anche dai fratelli che all'inizio, soprattutto Anselmo, ne erano stati davvero gelosi.

Maria Pia si faceva amare, la si sentiva solo quando aveva fame e voleva dormire, le nonne facevano a gara a raccontarle storie inventate e vere come se la piccola già capisse.

Giacomo, la bambina poteva godersela davvero solo la domenica, gli altri giorni era sempre in miniera, quella del Siele, per poter portare un pezzo di pane a casa.

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Quel 15 Giugno del 2000 la sveglia suonò alle 4 e 30, stentai a capire cosa fosse quel suono continuo che mi stava martellando nella testa, a tastoni prima di accendere la luce allungai il braccio verso il comodino per prendere la sveglia e farla smettere di suonare. Giulio stava ancora dormendo beatamente. Mi alzai dal letto, mi recai in cucina dove la sera prima avevo preparato sopra il fornello la caffettiera carica – acceso il gas, me ne andai lentamente in bagno a darmi una sciacquata con l'acqua fresca per cercare di svegliarmi.

Guardandomi allo specchio, mi accorsi che avevo i capelli tutti ritti e scapigliati, sembravo un riccio, il viso stanco con le rughe ancor più appariscenti. Tra uno sbadiglio e l'altro ritornai in cucina a spegnere la fiamma del gas: il profumo del caffè aveva riempito la casa.

Preparai il vassoio con le tazzine e il bricco del caffè, lo portai in camera dove lo poggiai sullo scrittoio: accesi la lampada e mi avvicinai a Giulio che stava ancora dormendo profondamente.

«Giulio, buongiorno! svegliati, è ora di alzarsi, altrimenti tarderemo troppo la nostra partenza» gli dissi baciandolo sulla fronte.

I suoi occhi si spalancarono, si guardò intorno e poi mi fissò come se in quel momento fossi entrata nel suo sogno – un attimo, poi mi fece un gran sorriso e come al solito mi tirò giù a sé per riempirmi di baci.

Ci gustammo lentamente il caffè, poi ognuno andò alla toilette a prepararsi per la partenza che avevamo progettato da anni e sempre rimandata per motivi di lavoro e per tante vicissitudini familiari e non.

Giulio da pochi mesi era in pensione dopo quarant'anni di lavoro come chirurgo ospedaliero: gli ultimi venti nell'ospedale di Piombino, suo paese natale. Uomo di bella presenza non solo fisica, sempre pronto a mettere a disposizione del prossimo saggezza, intelligenza e preparazione – ricevendo fiducia e rispetto. Abbiamo alle spalle quasi quarantatré anni di matrimonio e ogni giorno per noi è nuovo, non ci annoiamo mai, abbiamo sempre qualcosa da dire ed imparare confrontandoci e rispettandoci l'un l'altra. Le difficoltà della vita che ci hanno segnato, le abbiamo sempre affrontate con dignità.

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Era già la terza o quarta volta che apriva quel cassetto della scrivania, senza accorgersi che ciò che stava cercando lo aveva davanti agli occhi. Nel vederlo gli si illuminarono, per un momento aveva creduto di averlo perso: era alla ricerca di un piccolo portafortuna, una tartaruga in oro da mettere alla catenina che gli aveva regalato l'amica Fernanda il giorno del suo diciottesimo compleanno – ne erano passati venti e gli pareva ieri. Quegli anni pieni di spensieratezza, di vita e di incoscienza erano tra i più bei ricordi.

Si era laureato in Giurisprudenza col massimo dei voti, e adesso esercitava, o meglio aveva esercitato fino al presente, la professione di pubblico ministero presso la procura di Livorno – sua città natale, dove viveva con la mamma Maria, vedova da dodici anni. Il suo babbo, Attilio, li aveva lasciati troncato da un infarto all'età di 62 anni.

Prese la tartaruga, la infilò nella catenina e chiuse le valigie che aveva preparato insieme alla madre, dopo aver guardato in ogni angolo della sua camera per paura di dimenticarsi cose essenziali: come se dovesse partire per l'Africa, quando invece la sua destinazione era Brescia. Scese in cucina dove la mamma e la sorella Letizia con i figli Gilberto di 8 anni e Anna, la sua prediletta, di 5, lo stavano aspettando per i saluti. Mamma Maria aveva già gli occhi pieni di lacrime, teneva stretto il fazzoletto fra le mani mentre Letizia, sempre sorridente, gli si strinse forte augurandogli in bocca al lupo.

Salutò i bimbi che, festosi, quasi gli si avvinghiarono. Pensò suo cognato Alberto a portare fuori le valigie per caricarle dentro la macchina posteggiata all'interno del giardino di casa. Una Volvo ormai datata ma ancora robusta e affidabile anche per i lunghi viaggi. In quel momento stava piovendo a dirotto; l'aria fresca lo spinse a tirar su il bavero della giacca.

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Il rumoreggiare del mare impetuoso sulle scogliere e il tintinnio delle barche ormeggiate nel piccolo porto di Corfù, svegliarono Gilda da un sonno profondo – con molta fatica si alzò per andare a chiudere le finestre che aveva lasciate aperte la sera prima per il troppo caldo. In quel preciso momento la pendola appesa nel salotto batté le tre. Inciampando in una bottiglia vuota, abbandonata sul pavimento insieme ad altri resti, si ricordò della festa che c'era stata la sera prima con i suoi amici. La testa le girava, era confusa... forse, anzi di sicuro, aveva bevuto qualche goccio di troppo – aveva difficoltà a mantenersi ritta, riuscì comunque ad arrivare alla finestra. Il vento era forte, non le fu facile serrare le persiane – prima di farlo gettò lo sguardo sulle alte onde spumeggianti che arrivavano fino alla strada. Brividi di freddo le attraversarono il corpo seminudo. Tornata a letto cercò di riprendere sonno pensando che l'indomani, se il tempo lo avesse permesso e dunque il volo che aveva prenotato non fosse stato cancellato, avrebbe preso l'aereo per fare ritorno in Italia... dopo aver vissuto ben due anni e sette mesi su quella meravigliosa isola.

Era il 12 marzo quando aveva lasciato il suo studio di avvocato civilista in Firenze, e dato un taglio alla propria vita per raggiungere Corfù. E non per una vacanza: si trattava di una vera e propria fuga da tutti: voleva starsene da sola, con la speranza di riuscire a liberarsi, almeno un po', dalla dolorosa morsa che la stringeva dopo la scomparsa di suo marito, Giuseppe Poppoli – morto a causa di una caduta accidentale mentre scalava una parete delle Dolomiti. Lui, esperto alpinista di origini valdostane.

Gilda si era sentita distrutta nel corpo e nella mente, la voglia di vivere era andata scemando; non sapeva darsi pace... qualsiasi persona le si avvicinasse per confortarla le dava fastidio, non riusciva a togliersi dalla mente quando, quella maledetta mattina, gli amici di Giuseppe erano venuti a chiamarlo: destinazione le sue amate montagne da scalare. E come poteva dimenticare l'ultimo abbraccio e quel bacio appassionato dati all'uomo che aveva conosciuto cinque anni prima, proprio a Corfù? Il loro era stato amore a prima vista, anche se non erano più ragazzini: lei 44 anni; Giuseppe 47.

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Per tutto febbraio e marzo, ininterrottamente, una ditta edile di Castelfranco aveva lavorato all’interno della villa, rimasta chiusa per anni, di fronte a quella di Letizia. La villa della sua vecchia amica Carla.

Le chiacchiere che erano girate dicevano che proprio Carla sarebbe tornata ad abitarci, anche se non la si era ancora vista in paese; o meglio, qualcuno sosteneva che fosse venuta una sera sul tardi e fosse ripartita la mattina seguente prestissimo.

Titti, fin dall’inizio dei lavori interni, era stata presa da uno stato d’ansia. Il pensiero di rivedere e riabbracciare colei che era stata la sua più cara amica, le procurava una tensione che non riusciva a smorzare. Un giorno, cercando di non farsi notare da nessuno, si era perfino presentata a quello che sembrava il capomastro e, sfidando sé stessa, gli aveva chiesto chi sarebbe venuto ad abitare lì. “Sa, un tempo questa bella casa era di una mia carissima amica... io vivo qua di fronte... scusi la mia curiosità, ma chi vi ha affidato i lavori?” aveva chiesto Letizia. Nel tabellone all’esterno, con l’autorizzazione comunale c’era scritto, oltre il nome del direttore e del responsabile del cantiere, quello di una società immobiliare.

Il capocantiere, gentilmente, le aveva solo confermato che i lavoro erano stati affidati a loro appunto dalla Immobilveneto di Castelfranco, e che non aveva idea di chi avesse ordinato la ristrutturazione – il loro referente era un architetto di Treviso.

Nei primi giorni di aprile, dopo avere evidentemente completato i lavori interni, erano tornati gli operai della stessa ditta e avevano tirato su l’impalcatura tutto intorno all’immobile per il rifacimento della intera facciata.

Letizia continuava a vivere con la speranza che fosse Carla a tornarci. Nonostante le sue abitudini al chiacchiericcio, neppure Concetta era riuscita a saperne niente di preciso.

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Quel novembre fece molto freddo, soprattutto nella cella umida del carcere di Porto Azzurro, dove si trovava recluso Giancarlo De Rosa di anni quaranta, originario di Positano: un ragazzo di bella presenza, alto, muscoloso, la testa piena di ricci neri, il volto triste e gli occhi chiari come il ghiaccio.

Era stato carcerato per una rapina finita male, ovvero con l’uccisione del guardiano Ermanno Gagliani – che aveva lasciato la moglie e un figlio di diciotto anni – fuori dalla villa del noto industriale milanese Vivaldi, in Piombino, dove Giancarlo risiedeva insieme ai genitori.

Giancarlo aveva un fratello maggiore, Claudio, e una sorella più piccola, Annina. Si erano trasferiti a Piombino da Positano, avendo il loro babbo preso a lavorare nello stabilimento delle acciaierie dell'Ilva.

All'epoca del fatto, Giancarlo aveva appena compiuto ventuno anni e la condanna, caso o no, era stata esattamente di ventuno anni, da scontare nel penitenziario di Porto Azzurro, all'Isola d'Elba.

A condividere, in quel novembre, la cella di pochi metri quadri con Giancarlo c’era Augusto Farinelli, ventitreenne, originario di Cecina, finito anch'esso dentro per una rapina: per pochi spiccioli stava scontando una pena di quattro anni. Il giovane veniva da una buona famiglia: il babbo e la mamma erano entrambi insegnanti del locale liceo classico – Augusto era figlio unico. I suoi genitori non gli avevano mai perdonato il gesto criminale né, tanto meno, l'avere infangato il buon nome della famiglia. Di sicuro non gli avevano messo in sconto il fatto che avesse compiuto quel gesto in un periodo della sua vita molto travagliato, di ribellione e ancora in ricerca di sé. Si era trattato della classica bravata fatta insieme a dei coetanei che poi si erano defilati, lasciandolo da solo sul luogo del crimine. Così Augusto aveva pagato per tutti e non aveva voluto fare il nome dei suoi meritevoli amici.

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